mercoledì 4 giugno 2014

Dallo strizzacervelli allo psicologo: un percorso (in salita) contro il pregiudizio

Molto spesso, forse la maggior parte delle volte, la figura dello psicologo si rivolge alla parte SANA della popolazione, una parte sana che ha pur sempre bisogno di essere nutrita, sostenuta e, perché no, orientata, nelle diverse situazioni e a seconda delle diverse esigenze con le quali ci confrontiamo. Una professione che non si rivolge necessariamente alla patologia, dunque, ed è questo un punto al quale io tengo in particolar modo, al fine di avvicinarci alla popolazione tutta, sradicando quei pregiudizi che troppo spesso si frappongono tra chi vorrebbe richiedere un aiuto, o piuttosto solo una consulenza o un intervento, e il ricercarlo, poi, concretamente. Purtroppo molte volte si ritiene di dover tenere nascosti i propri disagi, così da non poter essere giudicati dagli altri, tendendo a non richiedere sostegno per vergogna, imbarazzo, per paura di non essere capiti, o di essere etichettati come “malati di mente”. Ma sono anche e soprattutto i “malati di niente” quelli a cui noi intendiamo rivolgere i nostri interventi. Ancora oggi tendiamo a confondere il disagio psichico con la malattia mentale, vissuta come uno stigma. Molte persone credono che rivolgersi ad uno psicologo per un sostegno, una consultazione o una psicoterapia, sia necessario solo in presenza di gravi psicopatologie. Questa errata convinzione contribuisce ad alimentare diffidenza e vergogna  nelle persone che sentono di aver bisogno di un aiuto, e fa sì che lo richiedano solo dopo mesi, o addirittura anni di sofferenza, magari vissuta in piena solitudine. Al contrario, ciascuno nel corso della vita può affrontare un momento di difficoltà, sofferenza o confusione.  Questo atteggiamento, ampiamente diffuso tra la popolazione, contribuisce a rendere sfocata la figura dello psicologo, ancora non pienamente radicata nel tessuto sociale e culturale. C’è ancora un alone di diffidenza e mistero attorno al suo ruolo e funzioni, sui suoi ambiti di intervento, nonché rispetto alle credenze e aspettative comuni che lo riguardano. Da qui diviene lecito porsi un interrogativo: Chi è lo psicologo e cosa fa?Lo psicologo è una professionista che, grazie alla sua formazione e alle sue esperienze personali, mette a disposizione se stesso e le sue competenze per l’altro. Egli accompagna l’individuo,  attraverso un percorso di scoperta guidata, in particolari momenti critici della vita, aiutandolo, attraverso il dialogo e l’autosservazione, ad esprimere  pensieri, desideri e fantasie, fino ad allora indicibili o inelaborate, ascoltare le proprie emozioni e, con consapevolezza, trovare le risorse positive presenti in ognuno. Come sottolineato in precedenza, la vita è densa di stress, di difficoltà familiari, lavorative, sociali e può capitare ad ognuno di aver bisogno, non di pillole di felicità, ma di dedicarsi uno spazio di ascolto attento ma non giudicante , in cui si possa prendere coscienza di se stesso.
I motivi per i quali si può richiedere una consulenza ad uno psicologo possono essere diversi: situazioni di lutto, periodi di transizione (menopausa, adolescenza, terza età), genitori che hanno bisogno di un supporto nei difficili compiti educativi: situazioni, queste, che rientrano nella normalità di ognuno di noi.
Ci sono poi anche sintomi un po’ più importanti che si presentano senza una causa apparente come ansia, attacchi di panico, episodi depressivi che possono anche aumentare di frequenza e di intensità con il tempo influenzando la sfera lavorativa, sociale e affettiva del singolo. Anche se, nella mia esperienza clinica, vedo che sempre più spesso le persone portano disagi inerenti la sfera relazionale, piuttosto che sintomi specifici. Indice, questo, che finalmente si inizia a dare la giusta importanza a difficoltà che, se trascurate, a lungo andare possono divenire addirittura invalidanti. È importante riconoscere ed entrare in contatto con il proprio disagio,  ricercando aiuto in chi, disponendo di se stesso, sostiene chi soffre e lo aiuta a dare ordine al disordine, per poter migliorare così la propria vita. La prima richiesta di aiuto e di ascolto grava spesso su figure come quella del medico di famiglia, uno dei pochi punti di riferimento stabili in un mondo che si muove sempre più velocemente. Ma nella richiesta non è sempre verbalizzato il disagio; è quindi solo dalla profonda conoscenza che il medico ha dei propri pazienti, spesso legata ad una presa in carico di molti anni, che può crearsi una via privilegiata per comprendere le necessità di natura psicologica, legate ad una sofferenza interiore o ad una sintomatologia che richiedono un intervento in più, o alternativo, a quello farmacologico, come sono gli interventi psicologici e psicoterapeutici. Chiedere aiuto, insomma, "non è peccato", e parlare il più possibile di queste tematiche è la nostra, dovuta, parte di prevenzione.

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venerdì 26 luglio 2013

Quando la DROGA è nel frigo

“Per dipendenza si intende un’alterazione del comportamento che da semplice o comune abitudine diventa una ricerca eccessiva e compulsiva del piacere attraverso mezzi, sostanze o comportamenti che sfociano in una condizione patologica, e che l'individuo dipendente tende a perdere la capacità di  controllo sull'abitudine”.
Come abbiamo già sottolineato, dunque, l'oggetto della dipendenza è, nel caso delle nuove dipendenze, un comportamento o un'attività lecita e socialmente accettata.
Tra le New Addictions possiamo quindi annoverare la dipendenza dal Gioco d'Azzardo, da
Internet, dallo Shopping, dal Sesso, e, secondo una recente classificazione, anche dal Cibo.
Per la maggior parte delle persone queste attività rappresentano parte integrante del normale svolgimento della vita quotidiana (cosa c’è di più sano di raccogliersi attorno alla tavola?), ma per alcuni individui possono assumere caratteristiche patologiche, fino a provocare gravissime conseguenze.
Le vie del piacere sono infinite, ognuno può scegliere la propria: qualcuno ha scelto il cibo, come consolazione ai dispiaceri della vita, come risposta allo stress quotidiano o come semplice momento di soddisfazione dei propri sensi.
Fin qui tutto bene, ma se questa attività diventa più di un'occasionale abitudine, cioè una prassi, le cose si complicano, e vengono coinvolti meccanismi fisiologici e psicologici difficili da gestire.
I centri di controllo dell'alimentazione sono localizzati nell'ipotalamo, struttura che regola la sensazione di sazietà e l'assunzione di cibo. Senza addentrarci troppo in meccanismi fisiologici molto complessi, possiamo dire che in una condizione “sana” mangiare è un'azione modulata dal ciclico alternarsi di fame e sazietà: la fame si sviluppa lentamente e periodicamente e, se non si è nelle condizioni di soddisfarlo, il desiderio di cibo aumenta, ma non ci sono condizionamenti delle attività in atto, né compaiono segnali di stress o di bramosia ossessiva.
La dipendenza da cibo (food addiction) ha un percorso leggermente diverso: il desiderio (craving) di cibo spinge a mangiare; dopo aver mangiato segue una fase di soddisfazione durante la quale si percepisce piacere, energia e si ha un aumento dell'attività. Quando il desiderio ricompare, esso si sviluppa velocemente fino a sintomi di astinenza, che condizionano la quotidianità del soggetto.
La periodicità con cui si presenta nuovamente il craving dipende dalla durata dei livelli di alcune sostanze (dopamina e serotonina), e solitamente varia da pochi minuti a qualche ora.
In alcuni momenti della vita, quindi, il cibo, necessario per la sopravvivenza, rischia di perdere il suo aspetto vitale e sano, diventando un problema, tanto da diventare un nemico, e per alcuni un ossessione.
Anche l’immagine idealizzata di una magrezza-bellezza imperante nella nostra società ha paradossalmente contribuito a questa dipendenza, poiché le diete rigide contribuiscono ad  attivare le compulsioni: ciò che è vietato è fortemente desiderato, soprattutto in un mondo in cui tutto è abbondantemente a portata di mano.
Queste nuove forme di dipendenza sono in espansione e mettono radici su incertezze, immaturità, false speranze e sicurezze apparenti. Ci rivelano chiaramente che le trasformazioni della nostra epoca hanno determinato cambiamenti significativi negli stili di vita individuali e collettivi generando, accanto a nuovi benesseri, anche falsi bisogni e nuove inquietudini. Uomini, donne, giovani e adolescenti super-impegnati, costretti a vivere situazioni sociali, affettive e lavorative di ambizione, di immagine, di efficienza, spesso in realtà sono persone fragili. Il mondo esterno ci schiaccia con richieste insistenti, sostanzialmente ci induce alla ricerca della gratificazione immediata e all'eliminazione di stress, vuoto e noia. Siamo indotti a costruire false immagini di noi stessi per poter stare al passo con i tempi. E se non ci riusciamo abbiamo a portata di mano ricette pronte e falsi conforti.
Le forme di disturbo dell'alimentazione, raggiungono l'apice nella Bulimia e nell'Anoressia, due aspetti contrastanti dello stesso problema che si manifestano con sintomi diversi e meccanismi fisiologici peculiari. Nel primo caso l'assunzione di cibo è eccessiva e frenetica ed è spesso seguita da condotte compensatorie; le "abbuffate" sono organizzate in segreto e consumate in solitudine. I soggetti anoressici, invece, rifiutano il cibo e sono ossessionati dal loro aspetto fisico e dalla paura di ingrassare.
Ma accanto a questi disturbi ormai tristemente famosi, si stanno evidenziando nuove condotte disfunzionali legate all’assunzione di cibo: il Disturbo da Alimentazione Incontrollata (Binge Eating Disorder) ne è un triste esempio.
Questo disturbo si accompagna ad un tono dell’umore depresso, ed è caratterizzato da frequenti abbuffate compulsive  che, a differenza della Bulimia Nervosa, avvengono a giorni alterni e senza condotte compensatorie, come vomito o uso di lassativi,  per cui ci sono giorni in cui si assumono grandi quantità di cibo e altri in cui l’alimentazione è normale o addirittura ridotta. Nei giorni dell’abbuffata, che possono essere tre o quattro in una settimana, si preferisce consumare cibi ricchi di grassi e meno quelli contenenti proteine o fibre. Questa tipologia di cibi favorisce la produzione di serotonina, per cui, inizialmente, il cibo stesso diventa un antidepressivo naturale, salvo trasformarsi, poi, in un ostile nemico di cui non si riesce a fare a meno e che scatena un profondo senso di colpa per la condotta messa in atto.
Il Binge Eating Disorder si ritrova più frequentemente negli adulti tra i 30 e i 40 anni e in modo sostanzialmente uguale nei due sessi; inoltre le persone afflitte da tale disturbo presentano spesso situazioni di sovrappeso e rilevanti fluttuazioni di peso  e mostrano una marcata preoccupazione per il proprio  aspetto fisico. Solitamente non praticano attività fisica, sono prevalentemente sedentari e questi fattori uniti a quelli in precedenza descritti, possono portarli a rientrare nei parametri dell’obesità.
Non dimentichiamo però che, accanto a queste condizioni dichiaratamente patologiche ci sono i casi “mascherati”:  il Disturbo da Alimentazione Incontrollata è la condizione permanente di una situazione che può riguardare tutti.  L’eccessiva gratificazione del cibo per contrastare una situazione potenzialmente depressiva è sicuramente  comune a molte persone.
Ormai la  cultura psicologica ci ha aiutato a comprendere quanto la dipendenza da cibo, come d’altra parte tutte le altre forme di dipendenza, abbia il potere di compensare momentaneamente i vuoti affettivi, lo stress, l’ansia, e quanto questo goffo tentativo sia profondamente legato al nostro “bisogno d’amore” e ad un “buco”, non dello stomaco ma dell’animo. “Riempirsi” di un falso nutrimento diventa un modo di coprire l’insicurezza e il disagio: una pseudo-soluzione per allentare l’ansia ma nel contempo un modo per aumentarla, si passa dal dolce al salato, si finisce e si ricomincia, tutto per non sentire, per non sentirsi..
Possiamo cercare di soffocare il disagio e l’aggressività (rivolta agli altri, ma anche a noi stessi) mangiando, divorando e mordendo, ma nessuna fetta di torta, seppure bella alla vista e dolce al palato, potrà darci un reale piacere quanto il concederci di assaporare la vasta gamma di emozioni che la nostra vita ci elargisce.


venerdì 8 marzo 2013

LA VIOLENZA INVISIBILE - donne e mal_trattamenti nella cosiddetta società civile

2 milioni 938 mila.
Questo il raccapricciante numero di donne che hanno subito violenza dal partner attuale o dall’ex partner, il 14,3% delle donne che hanno o hanno avuto un partner nel corso della vita (dati Istat).
Secondo l'Istituto di statistica negli ultimi anni in Italia il tasso di omicidi che avvengono in ambito familiare o sentimentale è aumentato notevolmente. Solo il 15% delle vittime sono uomini, nella maggior parte dei casi, dunque, si tratta di violenza sulle donne.
I casi denunciati nel 2012 sono stati il 26%, ma la percentuale scende fino al 6% se si tratta di maltrattamenti sessuali, perché le vittime, sprofondando in una spirale in cui si sentono colpevoli delle violenze subite, se ne vergognano. Con il termine violenza domestica si intende tutta una serie di violenze di diversi tipi, che coinvolgono la sfera psicologica, sessuale, fisica ed economica, esercitate all’interno della famiglia. In particolare ci si riferisce alla violenza del partner (marito, convivente, fidanzato) nei confronti della compagna. Più in generale, si definiscono violenti tutti i comportamenti o gli atti che mettono un partner in condizione di potere e di controllo da parte dell’altro.
Analizziamo i vari tipi di violenza. La violenza fisica è costituita da qualsiasi atto volto a far male o spaventare. Non riguarda, quindi, solo un’aggressione fisica, che causa ferite che impongono l’intervento medico d’urgenza, ma anche ogni contatto fisico che mira a creare un vero e proprio clima di terrore.
La violenza psicologica comprende le minacce e i ricatti al partner o ai suoi figli, le umiliazioni pubbliche e private, i continui insulti, il controllo o l’imposizione delle scelte individuali, la ridicolizzazione…
La violenza sessuale può avvenire all’interno del rapporto di coppia come imposizione alla donna di rapporti sessuali indesiderati e può assumere aspetti diversi. La messa in atto del rapporto può, infatti, avvenire con il ricorso all’uso della forza o con ricatti psicologici. Questo tipo di violenza comprende anche il mettere in ridicolo i comportamenti sessuali della donna e le sue reazioni, il fare pressioni per l’utilizzo o la produzione di materiale pornografico, la costrizione a rapporti con altre persone, o comunque a pratiche indesiderate dalla compagna.
La violenza economica riguarda tutto ciò che, direttamente o indirettamente, impedisce, ostacola o concorre a far sì che la donna sia costretta in una situazione di dipendenza quando non ha mezzi economici sufficienti per sé e i propri figli. Questa situazione di dipendenza la priva della possibilità di decidere e di agire autonomamente soddisfacendo i propri desideri e le proprie scelte di vita. Questa forma di violenza si realizza attraverso svariate forme di controllo: negando, controllando puntigliosamente o limitando l’accesso alle finanze familiari, occultando ogni tipo di informazione sulla situazione patrimoniale, facendo firmare con la forza o l’inganno documenti, ecc...
Le violenze abituali danno origine a quello che viene definito maltrattamento; solo molto raramente, infatti, la violenza che si consuma fra le pareti domestiche rappresenta un fenomeno improvviso, estemporaneo o occasionale, essa solitamente assume, al contrario, le caratteristiche della ripetitività e della continuità, quasi quotidiana.
La violenza, sia per chi agisce ma anche per chi la subisce, è un fenomeno che trova le sue radici nelle esperienze dell’infanzia, ed entra nel mondo interno della persona come sì modello ingiusto e doloroso, ma allo stesso tempo come modello ammissibile e consueto, un modello di relazione con l’altro difficile da modificare.
Con il tempo il maltrattamento mina profondamente l’integrità delle donne, impoverendole al punto da rendere loro impossibile ogni movimento: la violenza, quindi, produce effetti devastanti e distruttivi che determinano l’impossibilità di ribellarsi. Nella relazione, poi, tra il maltrattante e la donna che subisce, proprio in virtù del fatto che la violenza avviene in una relazione affettiva e familiare, la donna si trova dentro ad una situazione ambigua, in cui il piano dell’abuso e quello affettivo si confondono e in cui essa sperimenta una confusione tra quello che sente come giusto, e quello che le impone il maltrattante e che lei fa suo per sopravvivere (“forse sono io che sbaglio, ha ragione lui”). Questo accade in modo pressocchè identico nell’odioso caso in cui ad essere abusati sono i figli.
Ambiguità e vergogna, sono proprio i punti cardine nella violenza domestica, anche se a volte la vergogna, che è legata alla consapevolezza dell' abuso subito, interviene solo quando tale consapevolezza riesce a farsi strada.
All’inizio la vergogna, spesso, viene trasmessa come paura di essere esposti alla pubblica umiliazione, di non corrispondere all’idea di coppia ideale, ma in seguito può essere riferita alla percezione della compresenza di due immagini contrastanti di sé e della relazione. La donna perde piano piano la capacità di leggere in modo corretto il suo rapporto con il partner, ma soprattutto, in questa confusione, perde la percezione di sé come persona capace di leggere e fronteggiare le situazioni. Le donne vittime di violenza domestica custodiscono di solito il segreto di quello che succede nelle loro case in quanto il loro racconto può non essere creduto o non essere accolto, oppure minimizzato e banalizzato proprio da quelle persone che dovrebbero costituire la loro rete sociale e affettiva di supporto. Si assiste ad una perdita sempre più marcata di autostima che può essere segnalata anche attraverso il corpo, che esprime ciò che non può essere verbalizzato: molte donne vittime di violenza, infatti, accanto ad uno stato spesso depressivo, possono lamentare anche  una serie di disturbi somatici come tachicardia, insonnia, difficoltà a deglutire, il sentire “un nodo alla gola”, disturbi gastrointestinali, il tutto accompagnato in quasi la totalità dei casi da un senso di silenzio interno e ansia costante.
È, inoltre, importante sapere che esser ripetutamente esposti a maltrattamenti di qualsiasi tipo può generare un trauma; infatti, questo termine non è solo associato ad episodi imprevisti, unici, e limitati nel tempo, come un incidente, una morte, una catastrofe o altro, ma anche una minaccia quotidiana, costante nel tempo e provocare l’insorgere di una serie di disturbi che vanno sotto la denominazione di Disturbo Post-traumatico da Stress (DSM-IV).
Oltre ad un marcato senso di confusione, una consistente diminuzione dell’interesse per il mondo esterno o per attività che prima erano vissute come piacevoli, uno degli effetti di situazioni traumatiche più importante è il ritiro emotivo, il congelamento dei sentimenti a scopo difensivo. Quando si parla con una donna vittima di maltrattamento il distacco emotivo appare evidente, il tono della voce è monotono, la mimica facciale è congelata, l’atteggiamento evitante non lascia spazio a sentimenti che potrebbero essere liberatori, come ad esempio la rabbia.
Nei racconti delle donne maltrattate, infatti, spesso la rabbia è assente. Anche nei casi in cui non sia presente il ritiro emotivo, il sentimento prevalente è il dolore, come se rabbia e dolore fossero due poli legati e opposti all’interno della relazione affettiva. Molte persone sperimentano fin dall’infanzia la percezione della rabbia come elemento pericoloso, che può provocare la perdita della figura affettiva di riferimento.
Il maltrattamento provoca nella donna la perdita del suo “punto di vista” sul mondo e su se stessa.  Il maltrattamento fa parte di una serie di strategie per tenere in pugno qualcuno usando la paura, il terrore, il ricatto emotivo, l’isolamento, la svalorizzazione e portando la vittima ad una continua sensazione di disorientamento e perdita dei propri confini.
Per sopravvivere in tali situazioni si giunge perfino a dubitare delle proprie facoltà critiche e ad arrendersi al punto di vista del maltrattante che impone come assoluta la sua visione del mondo, obbligando l’altra persona a qualsiasi cosa lo possa far sentire sicuro della sua posizione di predominio e di controllo. Riuscire a conservare il proprio punto di vista ha a che fare con la consapevolezza e la capacità di scelta, vuol dire avere un’identità; perderlo, non riuscire più a essere certe, essere indotte a pensare che solo l’altro sia il detentore della verità significa diventare deboli e incerte, muoversi in un territorio insicuro, perdere consistenza e indebolire la propria identità. Eppure questa perdita nel maltrattamento è la condizione per sopravvivere, è un accadimento interno di cui le donne non sono consapevoli perché avviene lentamente, a piccole dosi, mascherato, coperto dalla relazione affettiva.  In sostanza il maltrattante è sempre presente, è il suo pensiero quello con cui “bisogna fare i conti” anche quando non è presente, come se nel sistema cognitivo della donna fosse entrato il punto di vista del maltrattante e lo avesse alterato. Il «lui dice», «lui pensa» al posto di “io dico”, “io penso”, può diventare la traccia da seguire per aiutare la donna a riappropriarsi dei
suoi parametri. L’aver interiorizzato il maltrattante e il suo punto di vista sulla realtà genera nella donna l’impossibilità di entrare in contatto con i propri sentimenti e i propri desideri e quindi di riconoscerli, scambiando per propri i desideri e i sentimenti del partner.
Sapere che la violenza ha tanti aspetti, che può essere sottile e insidiosa, che può cogliere ognuno di noi di sorpresa e insediarsi poco alla volta nelle nostre relazioni di coppia, è uno dei requisiti più importanti per sostenere le donne e aiutarle a uscire dall’isolamento in cui vengono collocate.

giovedì 21 febbraio 2013

QUANDO I TABLET ERANO D’ARGILLA - piccolo viaggio nel complesso mondo della comunicazione interpersonale

Due persone al ristorante, un uomo ed una donna, interno, sera.
Non si parlano, non si guardano nemmeno ma tengono in mano ognuno il proprio
smartphone: arriva il cameriere, porta il vino, lo versa nei bicchieri, i due protagonisti fanno un brindisi a non si sa cosa, bevono un sorso poi ognuno si rimette a scrivere sul proprio cellulare.
Qui i casi sono due, o si scrivono tra loro, cosa bizzarra visto che sono a 40 centimetri di distanza, o scrivono ad altri, anche questa cosa bizzarra dal momento in cui si ha un altro di fronte, con il quale potersi relazionare. Così passa la loro serata, in silenzio e scrivendo su quel cellulare.
Inutile mettere la testa sotto la sabbia: il modo di comunicare, di relazionarsi è mutato molto in base alle nuove tecnologie che si avvicendano ad un ritmo sempre più sostenuto. Siamo costantemente connessi ad un gran numero di individui e proprio per questo, corriamo il rischio di perderci, di non riuscire a districarci in questa immensa rete fatta di persone lontane e vicine. Tutti i filtri attraverso i quali oggi ci troviamo a comunicare comportano un innalzamento delle nostre difese interpersonali e, di contro, un abbassamento della nostra capacità di metterci davvero emotivamente in gioco e in relazione. Ma nonostante queste radicali trasformazioni, alcuni, fondamentali, assiomi di base della comunicazione, resistono al nuovo millennio.
La voglia di comunicare ed essere capiti è insita in ognuno di noi. E la consapevolezza della buona ricezione di ciò che si vuole comunicare può portare ad alleviare quel senso di solitudine che ognuno porta dentro di sé. Avere la voglia di esprimere qualcosa agli altri, a chi può captarci e capirci è un bisogno del tutto naturale. Attraverso la comunicazione, l'uomo ha potuto mutare le strutture sociali nelle quali si è trovato via via ad operare nel corso dei secoli: partendo dalle tribù e dai piccoli villaggi, attraverso l'elaborazione di sistemi sociali sempre più complessi, ha alimentato un processo continuo, che ha consentito di giungere fino all’attuale globalizzazione. La prima rivoluzione dell'informazione che si è avuta nella storia dell'uomo è stata costituita dal linguaggio, poi è venuta quella della rappresentazione, della scrittura e della lettura, seguite dalla rivoluzione dei mezzi di supporto su cui vengono registrate le informazioni (le tavolette di argilla, le incisioni su pietra, le iscrizioni su papiro e su pergamena, l'introduzione della carta..); dopo secoli si è avuta l'invenzione della stampa e, successivamente, la rivoluzione tecnologica e quella informatica. E' ormai evidente che l’informazione può essere comunicata in tempo reale ed in gran quantità tramite le moderne strategie di comunicazione che hanno notevolmente ampliato le possibilità in questo campo. Inoltre, si ristrutturano le forme stesse della comunicazione che, nella rete delle reti, si realizza o in forma libera e destrutturata nella posta elettronica, od organizzata secondo la tecnica della “navigazione” in un ipertesto multimediale quasi illimitato. Ma cosa resta immutato sia nella tavoletta d’argilla che nel tablet? Procediamo con ordine, dando innanzitutto, una breve definizione, generalizzabile e sempre valida.
La comunicazione è un processo bidirezionale consistente nello scambio di messaggi , attraverso un canale e secondo un codice, tra un’emittente ed uno o più riceventi.
Comunicare bene è importante, anzi fondamentale. Noi comunichiamo sempre. Anche le due persone del nostro esempio iniziale comunicavano, pur restando in silenzio, tra loro, anche se, magari, ne erano inconsapevoli. Comunicare quindi, comunicare bene e in modo efficace, non è solo un atto di saper fare ma anche e soprattutto di saper essere. La comunicazione efficace diventa così paradigma di una buona qualità di vita. Essa richiede come competenze di base sia una buona capacità d’ascolto sia una capacità di relazione. Sembra incredibile ma per aumentare la propria capacità relazionale e di comunicazione interpersonale non serve tanto parlare quanto ascoltare. È proprio da noi stessi, dalla nostra capacità d’ascolto, di entrare empaticamente in relazione con l’altro, che parte tutto. L’empatia è la capacità di immedesimarsi nell’altro, comprendere  la situazione in cui si trova  ciò che prova. Riuscire a provare empatia diviene sempre meno semplice: non abbiamo tempo, siamo troppo presi da noi stessi, dai nostri problemi, siamo sempre di corsa, non abbiamo mai tempo eppure … è il segreto, la chiave che apre tante porte. Essere empatici non vuol dire essere remissivi o accondiscendenti: essere empatici vuol dire capire e decidere cosa dire e fare sulla base della comprensione dell’altro, senza negare noi stessi ed il nostro vissuto. Ma non possiamo capire l’altro se non ci apriamo ad uno spazio di ascolto. Del resto, ci sarà un motivo se la natura ci ha dotato di due orecchie e una sola bocca..
Ma ovviamente, parlando di comunicazione, non ci riferiamo solo a canali verbali o informatici, immaginando il processo comunicativo come fosse un iceberg, la comunicazione verbale si identifica solo con la punta dell’icberg, quella che si mostra in modo più evidente: ben il 90% della comunicazione, infatti, è costituito da elementi non verbali, corporei o che comunque si avvalgono di altri canali, come quello visivo, olfattivo, immaginativo.. non si può non comunicare! È questo il primo assioma della comunicazione, che dovremmo tenere sempre ben presente nel nostro tentativo di divenire dei comunicatori sempre più efficaci!

giovedì 7 febbraio 2013

LA RELAZIONE TASCABILE (la dimensione consumistica dell'amore)

Qualche tempo fa la parola noi aveva un senso diverso e più spessore. Meno sentimentale e molto più pragmatico, il noi di cinquanta anni fa aveva un colore diverso, incarnava una storia, una famiglia ed una discendenza. In seguito, questa parola ha subito molte modificazioni, declinandosi prima in una famiglia nucleare, poi in una coppia che non rinuncia alla possibilità di scegliersi ogni giorno, ma tutti questi ruoli del noi si sviluppavano sempre all’interno di una dimensione relazionale. Al centro c’era un’idea, un valore, non un ego. Con l’epoca dell’affermazione dell’io, della me-society si giunge al formarsi di pseudo relazioni che  vedono due individui rinchiusi ognuno all’interno di se stesso senza la capacità, o forse la disponibilità, a stabilire un vero legame, perdendo il contatto con le proprie emozioni.
Nella nostra società, dove le relazioni sono instabili ed in perenne movimento, la coppia trova il compimento della sua essenza anche in unioni di tipo non familiare; unioni libere, momentanee, sono spesso ormai non solo il  guado da attraversare prima di giungere a legami consolidati, ma anche il mare in cui uomini e donne decidono di navigare per tutta la vita. In un mondo ferocemente individualistico, le relazioni esprimono nel modo più netto l’odierna ambivalenza, tra sogno e incubo, tra libertà appagata, e schiavitù frustrata. Si vuole vivere l’ossimoro dell’esserne dentro e fuori allo stesso tempo; l’amore non è più “consegnarsi in ostaggio a un destino”, accettare l’incognita che sempre l’Altro rappresenta, ma diventa l’arte di alimentare quella che può definita “relazione tascabile”, pronta all’uso, e sulla quale esiste un controllo totale.
L’arte di troncare, di ‘disconnettersi’ (Internet docet) diventa fondamentale; la rescissione immediata, come in ogni contratto che si rispetti, è la base. Ma resta altresì importante potersi connettere, sperare in un telefono che suona sempre, dando così alle relazioni inedite qualità di prossimità virtuale, nelle quali si può stare in contatto pur tenendosi in disparte, e viceversa e rispetto a cui le capacità per coltivare la prossimità non virtuale sono sempre meno esercitate.
Una “relazione tascabile” è dolce e (o perché) di breve durata, e presenta delle regole ben precise, senza il soddisfacimento delle quali si ricasca irrimediabilmente in quello che è il classico, soffocante e vischioso rapporto da cui con tanta veemenza sembriamo fuggire. Innanzitutto questo tipo di relazione non ha nulla a che fare con l’innamoramento: essa deve essere intrapresa con piena coscienza, razionalità e giudizio. La convenienza momentanea è l’unica cosa che conta. E se qualche anno fa qualcuno cantava “chi meno ama è più forte si sa”, anche in questa occasione è il caso di dire che meno investi nella relazione, meno insicuro ti sentirai quando sarai esposto alle fluttuazioni delle tue emozioni future. Sì, perché in questo caso l’indeterminatezza non è data dall’insicurezza che può trasmetterci il partner, ma dalle nostre stesse oscillazioni, che rendono indeterminato il nostro interesse verso una particolare relazione.
I compartimenti stagni tra l’io e il tu, trasformano le persone in uno ‘sciame’ un “aggregato mobile in cui ogni singola unità fa la stessa cosa ma nulla viene fatto in comune”. Quando manca la qualità, si cerca rifugio nella quantità. Quando non c’è niente che duri, è la rapidità del cambiamento che può redimerti.
Nell’ottica della “relazione tascabile” non bisogna mai soprassedere su ciò che non si gradisce del “partner-tascabile”: se noti qualcosa che non avevi contrattato o che non ti interessa è giunto il momento di approdare al prossimo surrogato di rapporto, ma sempre in via del tutto temporanea. In un mondo in cui l’importanza di un evento viene valutata solo in termini numerici e di visibilità (la qualità di un programma televisivo dal numero di spettatori, la profondità di un pensiero dal numero dei “mi piace” racimolati sul noto social network) la frequenza con cui questi argomenti saltano alla ribalta della scena, ci rivela quanto sia importante imparare a sviluppare delle capacità per affrontarli: in questa tipologia di relazione non si stabilisce un legame per seguire un desiderio, quanto piuttosto per togliersi una voglia, proprio come per lo shopping, queste relazioni sono “in vetrina”. In questo mondo, che Zygmunt Bauman definisce magistralmente come “liquido” perché in continuo movimento, le relazioni sono  concepite come degli abiti da indossare per poi svestirli ad ogni cambiamento di moda o fluttuazione di peso. Se prima, infatti, lo smoking con cui ci si era sposati  veniva conservato per ogni tipo di futura “grande occasione”, oggi tutti noi rientriamo prima di ogni altra cosa nella categoria di consumatori, e in quanto tali tendiamo a considerare bene di consumo tutto ciò con cui veniamo in contatto.
Togliersi una voglia, diversamente dall’esaudire un desiderio, è soltanto un atto estemporaneo, che si fa in modo non lasci conseguenze durevoli che potrebbero ostacolare ulteriori, futuri momenti di “estasi gioiosa”. Nel caso delle relazioni, e delle relazioni sessuali in particolare, seguire le voglie anziché i desideri significa lasciare la porta ben aperta ad altre “possibilità pseudo romantiche” che potrebbero rivelarsi magari più soddisfacenti ed appaganti. Il desiderio va curato e coltivato, implica una dedizione prolungata, ma soprattutto comporta l’essere capaci e disponibili a procrastinare il suo soddisfacimento: il sacrificio senza dubbio più aborrito nel nostro mondo fatto di velocità ed accelerazione. In questa società di “soddisfatti o rimborsati” qualunque merce può essere sostituita con altri prodotti che si sperano essere più soddisfacenti. Ma anche se al momento le merci dovessero mantenere le promesse, nessuno si aspetta che esse durino a lungo; dopotutto, automobili, pc o telefoni cellulari in perfetto stato vengono gettati via senza troppo rammarico nel momento in cui versioni nuove e aggiornate arrivano nei negozi. Perché mai le relazioni dovrebbero fare eccezione? Oggi una relazione è un investimento come tutti gli altri. Nella migliore delle ipotesi, gli altri sono valutati come compagni d'avventura nell'attività del consumo essenzialmente solitaria: soci nelle gioie del consumo.


lunedì 26 novembre 2012

COMUNICAZIONI SCUOLA-FAMIGLIA
rapporti in tras-formazione

Un tempo leggere “comunicazioni scuola-famiglia” rimandava immediatamente ad un paio di immancabili paginette dei diari scolastici di bambini e ragazzi di qualche generazione fa (ma non poi tante), dove gli insegnanti scrivevano vari messaggi e le famigerate “note”, sicuri che l’alunno, di ritorno da casa, avrebbe riportato non solo la firma dei genitori, quanto soprattutto il ricordo di una bella “lavata di testa” per la marachella compiuta.
Questo era un piccolo esempio di quella che oggi appare preistoria: un rapporto di fiducia tra due importanti sistemi, la scuola e la famiglia, che lavoravano insieme per la crescita dei ragazzi.
Il rapporto fra famiglia e scuola, il dialogo fra genitori e insegnanti è oggi spesso faticoso, ed evidenzia, al contempo, processi intrusivi e di delega, dando luogo così un’empasse paradossale. Il primo problema da superare è probabilmente quello di considerare i due istituti come due contenitori separati in compartimenti stagni. Storicamente scuola e famiglia erano realmente separati, per il fatto che la famiglia in passato delegava alla scuola tutta una serie di compiti, ma, riconoscendone l’autorità, ognuno faceva la sua parte all’ interno di un contenitore condiviso.
Ed è proprio l’autorevolezza della Scuola che oggi, unitamente a quella delle altre istituzioni, non viene più riconosciuta: mentre un tempo ci si avvicinava con fiducia a figure che incarnavano “l’autorità”, oggi è il senso stesso delle istituzioni che è andato in crisi, divenendo un qualcosa da cui proteggersi e non a cui affidarsi.
In seguito a questa profonda incrinatura, infatti, i due sistemi faticano a trovare qualche punto di incontro, faticano in una parola a fare squadra. Bisogna perciò rimettere in piedi una relazione fiduciaria, creare un’alleanza per la crescita e lo sviluppo degli alunni.
Viviamo dei tempi dove funzioni e ruoli differenti si sfumano troppo spesso gli uni sugli altri, a volte sovrapponendosi, così da generare un clima di incomunicabilità e confusione. Genitori ed insegnanti oggi di frequente di “sfidano in singolar tenzone”, ognuno proteso ad affermare la sua posizione di potere e di predominanza rispetto all’altro nei confronti di quelli che i primi chiamano figli e i secondi alunni.
La trasformazione della famiglia, alla quale stiamo assistendo, rende palese il ruolo spesso marginale di una figure adulte: l’assottigliamento dei ruoli non è infatti un dato di poco conto, in quanto mina l’autorevolezza dell’adulto che dovrebbe essere testimone di riferimenti, valori e norme utili alla fondazione della persona e quindi della società. Si tratta di un’abdicazione, più o meno avvertita, che condiziona la maturazione dell’individuo in formazione, perché non lo prepara appieno ad affrontare quegli elementi di responsabilità, di impegno e di frustrazione che compongono le scelte del domani.
L’atteggiamento a volte intrusivo di alcune famiglie verso il lavoro degli insegnanti porta questi ultimi a percepire queste azioni come una riduzione del loro campo d’azione; queste intrusioni possono evidenziare una certa sfiducia nella scuola da parte della famiglia e la sua difficoltà di cambiare e provare ad integrarsi ad essa.
Stiamo osservando l’interazione tra due sistemi molto complessi e influenti nella crescita del giovane, che cercano di entrare in contatto, con tutte le difficoltà che tale relazione potenzialmente porta con sé, considerando che la scuola e la famiglia si basano su obiettivi educativi differenti.
Alla luce del quadro fin qui descritto, dovrebbe risultare chiaro che né le conquiste della genetica né la presunta modernizzazione dei sistemi possono aiutare a decodificare o riformulare la famiglia del 21° secolo.
Non è inserendo nuove compagini legali o modificando cornici etiche che si aiutano la famiglia e la società a comprendersi e neppure la Scuola, importante elemento sociale, è in grado di essere l’unica interprete dell’inadeguatezza della famiglia, dato lo stretto legame che le avvicina.
Tocca fermare la corsa consumistica alla novità e rifondare il senso di responsabilità reciproca, puntando sull’educazione dell’adulto per evitare la deriva.
Ciò che emerge chiaro è la necessità di un rapporto docenti-genitori inserito in una prospettiva di ricerca comune: un dialogo vero, che non sia semplice conversazione né dibattito, ma ricerca sui modi in cui pensare la formazione di bambini e ragazzi.
In tale prospettiva assume un ruolo e un significato particolare il tema della responsabilità, nella sua accezione di capacità di rispondere, sia come riconoscimento di se stessi e di ciò che ci sentiamo di essere, sia come riconoscimento dell’altro e del modo di porsi nelle relazioni.
La Scuola, dunque, trova il suo ruolo proprio in questa prospettiva laddove tutela il benessere individuale e sociale. Non può perciò parlare ad una famiglia ipotetica né rivolgersi ad un modello standard di adulto o ignorare le dinamiche sociali e familiari che caratterizzano i nostri giorni e nelle quali il ragazzo è immerso, né si può limitare a rapporti ufficiali Scuola-Famiglia, tesi a mediare l’apprendimento dello studente.
A pensarci bene, del resto, anche la Scuola è a sua volta  composta da adulti, a loro volta provenienti da nuclei familiari, ma di solito, tali adulti, chissà poi perché, non si interrogano su questa dimensione del loro essere, quasi vivessero due realtà estranee, se non dicotomiche, il privato e il lavoro, l’essere persona e l’essere insegnante.
Didattiche, metodologie e programmi d’insegnamento sono in continua evoluzione, contrariamente ad una formazione preconfezionata dell’insegnante/persona, formazione che dovrebbe prendere le mosse da una riflessione comune su quali orizzonti antropologici, psicologici e sociali possono essere condivisi dalla Scuola, ai fini di comprendere con e per quale uomo, quindi con quale famiglia e con quale società, essa intende colloquiare e costruire il domani.
Capire se stessi, per capire l’altro: conoscere per capire e farsi comprendere.
In definitiva, sarebbe auspicabile che la Scuola smettesse  i “panni” del sostegno e della “protesi” sociale per indossare quelli della promozione umana, in quanto, oggi, si tratta di “educare” l’adulto per poter “educare” il bambino.

L’ERRORE DI CARTESIO
riappropriarsi dell’unità alla ricerca della salute


Mente e Corpo: nella nostra cultura, i due termini sono radicalmente disgiunti e le uniche possibilità di conciliazione conducono a parole composte come mente-corpo, psico-somatico, bio-psicologico, che evidenziano, anche graficamente, la netta dissociazione tra le due dimensioni dell’essere vivente.
Nasce quindi l’esigenza di individuare un termine che attraversi, contemporaneamente, la fondazione e lo sviluppo tanto dello psichico quanto del somatico. Il concetto che mi sembra esprimere questa funzione di contemporaneità integrativa è quello di relazione.
Cartesio codifica la completa separazione della coscienza e della mente, la Res Cogitans, da quella del corpo e della materia, la Res Extensa. Cartesio era convinto che la mente, l’io pensante, fosse un fenomeno di natura divina, creato da Dio e che solo la religione era in diritto di occuparsene; il corpo, macchina biologica senza anima, poteva essere quindi studiato dagli scienziati senza ledere il privilegio della religione. Ma come la psiche è connessa con il corpo fisico? La scienza occidentale nasce da questa precisa divisione che si sviluppa come studio del solo corpo fisico, della struttura meccanica senza occuparsi della mente, anzi ignorandola completamente o addirittura, secondo alcuni approcci, sostenendone l’insistenza.
Anche la medicina, figlia della scienza moderna, si sviluppa studiando il solo corpo, le sue parti e la sua meccanica, da cui derivano tutte le malattie e dalla cui modificazione farmacologica o chirurgica si può riguadagnare la salute. La mente e le emozioni sono completamente assenti: fino a pochissimi anni fa non solo era sconosciuta ogni forma di interazione tra psiche e corpo, ma anzi, ogni tentativo di evidenziare delle connessioni veniva censurato e ridicolizzato.
Capita a volte, però, che la cultura popolare sia profondamente più saggia della scienza: da Shakespeare alle canzonette popolari di ogni paese, infatti, risulta evidente la connessione che lega le passioni alla gioia di vivere o, al contrario, alla depressione, alla malattia e alla morte. Le persone non si meravigliano se arrossiscono perché imbarazzate o quando un pensiero spaventoso fa battere forte i loro cuori, eppure trovano difficile credere che stati mentali quali solitudine o tristezza possano avere un impatto sui loro corpi. È sconcertante pensare come la scienza medica abbia, per molti anni, tenuto così poco conto di questa innegabile interrelazione.
Negli ultimi anni c’è stata un’esplosione di studi e ricerche che indicano che la mente ed il corpo sono funzioni di un sistema unitario e che gli stati emotivi hanno un’interfaccia corporea, tramutandosi, ad esempio, in una risposta alterata del sistema immunitario. Il passo logicamente successivo è quello di assumere che le emozioni hanno un impatto sulla salute, tanto da richiedere che qualsiasi malattia fisica venga indagata non solo da un punto di vista medico e psicologico, ma anche considerando l'aspetto emotivo che l'accompagna.
La salute è la ricchezza più grande dell’essere umano. Quando viene meno, il “sintomo” è vissuto come una sfortuna incombente, e quando risulta inutile il ricorso alla farmacologia e alla chirurgia, ci sentiamo del tutto impotenti. Negli anni alcuni teorici sono giunti a sostenere che tutte le malattie sono psicosomatiche, proprio perché  psiche e soma non sono che due diversi aspetti di un organismo; la loro funzione è identica a livello energetico, ed è a tale livello che possiamo meglio comprendere la reazione del corpo allo stress. Ma lo stress, di certo, non sfocia necessariamente in malattia. Nel corso della vita siamo soggetti a molti fattori stressanti che siamo in grado di affrontare senza problemi: l’organismo è in grado di fronteggiare quelli più comuni senza che vengano meno le sue normali funzioni.
Con il termine di “malattie psicosomatiche” si intende quell’ampia fascia di patologie che si situano tra lo psichico ed il corporeo, con produzione di una sintomatologia di tipo funzionale ed organico in cui è possibile ravvisare una origine psicologica. Oggigiorno, con i ritmi di vita sempre più veloci ed il moltiplicarsi dei fattori di stress cui ognuno di noi è sottoposto, le malattie psicosomatiche sono in netto aumento e rappresentano le risposte estreme dell’organismo, inteso nella sua interezza di corpo-mente, di fronte a problematiche di natura affettiva ed emotiva e sotto le pressioni di tipo socio-ambientale.
Quando viviamo una situazione emotivamente difficile, un conflitto o un trauma, nella malattia psicosomatica è come  se da un lato avessimo la “mentalizzazzione” di quei contenuti che ci creano il disagio, cioè la loro elaborazione in termini di presa di coscienza, riconoscimento, accettazione, contestualizzazione, insomma la possibilità di viverli a livello psichico, e dall’altro la loro espressione in forma occultata, pur sempre presenti, ma come se fossero codificati in un altro linguaggio, quello corporeo, appunto.
Ecco dunque che il corpo si incarica di comunicare, a sè stessi ed agli altri, “come può”, la presenza di contenuti “disturbanti” per la coscienza, attraverso il ricorso al sintomo fisico. In questo senso specifico, la somatizzazione costituirebbe una sorta di “codificazione” di contenuti affettivi ed emotivi difficilmente (o affatto) mentalizzabili, che altrimenti andrebbero perduti se non venissero, appunto, registrati nella matrice psico-corporea.
Ovviamente il significato dell’unità funzionale del sistema “persona” nelle componenti corporee quanto in quelle psichiche, assume una profonda importanza anche non arrivando necessariamente ad occuparci delle malattie psicosomatiche propriamente dette. Un’attenzione al nostro respiro, alla nostra capacità di esprimere le emozioni e a tutte quelle possibilità che fanno di noi un “tutto unito”, ci porta nella direzione di un vero stato di salute, in cui il nostro corpo non viene più concepito come un mero “insieme di organi”, ma si trasforma in un “corpo vivo”.