venerdì 8 marzo 2013

LA VIOLENZA INVISIBILE - donne e mal_trattamenti nella cosiddetta società civile

2 milioni 938 mila.
Questo il raccapricciante numero di donne che hanno subito violenza dal partner attuale o dall’ex partner, il 14,3% delle donne che hanno o hanno avuto un partner nel corso della vita (dati Istat).
Secondo l'Istituto di statistica negli ultimi anni in Italia il tasso di omicidi che avvengono in ambito familiare o sentimentale è aumentato notevolmente. Solo il 15% delle vittime sono uomini, nella maggior parte dei casi, dunque, si tratta di violenza sulle donne.
I casi denunciati nel 2012 sono stati il 26%, ma la percentuale scende fino al 6% se si tratta di maltrattamenti sessuali, perché le vittime, sprofondando in una spirale in cui si sentono colpevoli delle violenze subite, se ne vergognano. Con il termine violenza domestica si intende tutta una serie di violenze di diversi tipi, che coinvolgono la sfera psicologica, sessuale, fisica ed economica, esercitate all’interno della famiglia. In particolare ci si riferisce alla violenza del partner (marito, convivente, fidanzato) nei confronti della compagna. Più in generale, si definiscono violenti tutti i comportamenti o gli atti che mettono un partner in condizione di potere e di controllo da parte dell’altro.
Analizziamo i vari tipi di violenza. La violenza fisica è costituita da qualsiasi atto volto a far male o spaventare. Non riguarda, quindi, solo un’aggressione fisica, che causa ferite che impongono l’intervento medico d’urgenza, ma anche ogni contatto fisico che mira a creare un vero e proprio clima di terrore.
La violenza psicologica comprende le minacce e i ricatti al partner o ai suoi figli, le umiliazioni pubbliche e private, i continui insulti, il controllo o l’imposizione delle scelte individuali, la ridicolizzazione…
La violenza sessuale può avvenire all’interno del rapporto di coppia come imposizione alla donna di rapporti sessuali indesiderati e può assumere aspetti diversi. La messa in atto del rapporto può, infatti, avvenire con il ricorso all’uso della forza o con ricatti psicologici. Questo tipo di violenza comprende anche il mettere in ridicolo i comportamenti sessuali della donna e le sue reazioni, il fare pressioni per l’utilizzo o la produzione di materiale pornografico, la costrizione a rapporti con altre persone, o comunque a pratiche indesiderate dalla compagna.
La violenza economica riguarda tutto ciò che, direttamente o indirettamente, impedisce, ostacola o concorre a far sì che la donna sia costretta in una situazione di dipendenza quando non ha mezzi economici sufficienti per sé e i propri figli. Questa situazione di dipendenza la priva della possibilità di decidere e di agire autonomamente soddisfacendo i propri desideri e le proprie scelte di vita. Questa forma di violenza si realizza attraverso svariate forme di controllo: negando, controllando puntigliosamente o limitando l’accesso alle finanze familiari, occultando ogni tipo di informazione sulla situazione patrimoniale, facendo firmare con la forza o l’inganno documenti, ecc...
Le violenze abituali danno origine a quello che viene definito maltrattamento; solo molto raramente, infatti, la violenza che si consuma fra le pareti domestiche rappresenta un fenomeno improvviso, estemporaneo o occasionale, essa solitamente assume, al contrario, le caratteristiche della ripetitività e della continuità, quasi quotidiana.
La violenza, sia per chi agisce ma anche per chi la subisce, è un fenomeno che trova le sue radici nelle esperienze dell’infanzia, ed entra nel mondo interno della persona come sì modello ingiusto e doloroso, ma allo stesso tempo come modello ammissibile e consueto, un modello di relazione con l’altro difficile da modificare.
Con il tempo il maltrattamento mina profondamente l’integrità delle donne, impoverendole al punto da rendere loro impossibile ogni movimento: la violenza, quindi, produce effetti devastanti e distruttivi che determinano l’impossibilità di ribellarsi. Nella relazione, poi, tra il maltrattante e la donna che subisce, proprio in virtù del fatto che la violenza avviene in una relazione affettiva e familiare, la donna si trova dentro ad una situazione ambigua, in cui il piano dell’abuso e quello affettivo si confondono e in cui essa sperimenta una confusione tra quello che sente come giusto, e quello che le impone il maltrattante e che lei fa suo per sopravvivere (“forse sono io che sbaglio, ha ragione lui”). Questo accade in modo pressocchè identico nell’odioso caso in cui ad essere abusati sono i figli.
Ambiguità e vergogna, sono proprio i punti cardine nella violenza domestica, anche se a volte la vergogna, che è legata alla consapevolezza dell' abuso subito, interviene solo quando tale consapevolezza riesce a farsi strada.
All’inizio la vergogna, spesso, viene trasmessa come paura di essere esposti alla pubblica umiliazione, di non corrispondere all’idea di coppia ideale, ma in seguito può essere riferita alla percezione della compresenza di due immagini contrastanti di sé e della relazione. La donna perde piano piano la capacità di leggere in modo corretto il suo rapporto con il partner, ma soprattutto, in questa confusione, perde la percezione di sé come persona capace di leggere e fronteggiare le situazioni. Le donne vittime di violenza domestica custodiscono di solito il segreto di quello che succede nelle loro case in quanto il loro racconto può non essere creduto o non essere accolto, oppure minimizzato e banalizzato proprio da quelle persone che dovrebbero costituire la loro rete sociale e affettiva di supporto. Si assiste ad una perdita sempre più marcata di autostima che può essere segnalata anche attraverso il corpo, che esprime ciò che non può essere verbalizzato: molte donne vittime di violenza, infatti, accanto ad uno stato spesso depressivo, possono lamentare anche  una serie di disturbi somatici come tachicardia, insonnia, difficoltà a deglutire, il sentire “un nodo alla gola”, disturbi gastrointestinali, il tutto accompagnato in quasi la totalità dei casi da un senso di silenzio interno e ansia costante.
È, inoltre, importante sapere che esser ripetutamente esposti a maltrattamenti di qualsiasi tipo può generare un trauma; infatti, questo termine non è solo associato ad episodi imprevisti, unici, e limitati nel tempo, come un incidente, una morte, una catastrofe o altro, ma anche una minaccia quotidiana, costante nel tempo e provocare l’insorgere di una serie di disturbi che vanno sotto la denominazione di Disturbo Post-traumatico da Stress (DSM-IV).
Oltre ad un marcato senso di confusione, una consistente diminuzione dell’interesse per il mondo esterno o per attività che prima erano vissute come piacevoli, uno degli effetti di situazioni traumatiche più importante è il ritiro emotivo, il congelamento dei sentimenti a scopo difensivo. Quando si parla con una donna vittima di maltrattamento il distacco emotivo appare evidente, il tono della voce è monotono, la mimica facciale è congelata, l’atteggiamento evitante non lascia spazio a sentimenti che potrebbero essere liberatori, come ad esempio la rabbia.
Nei racconti delle donne maltrattate, infatti, spesso la rabbia è assente. Anche nei casi in cui non sia presente il ritiro emotivo, il sentimento prevalente è il dolore, come se rabbia e dolore fossero due poli legati e opposti all’interno della relazione affettiva. Molte persone sperimentano fin dall’infanzia la percezione della rabbia come elemento pericoloso, che può provocare la perdita della figura affettiva di riferimento.
Il maltrattamento provoca nella donna la perdita del suo “punto di vista” sul mondo e su se stessa.  Il maltrattamento fa parte di una serie di strategie per tenere in pugno qualcuno usando la paura, il terrore, il ricatto emotivo, l’isolamento, la svalorizzazione e portando la vittima ad una continua sensazione di disorientamento e perdita dei propri confini.
Per sopravvivere in tali situazioni si giunge perfino a dubitare delle proprie facoltà critiche e ad arrendersi al punto di vista del maltrattante che impone come assoluta la sua visione del mondo, obbligando l’altra persona a qualsiasi cosa lo possa far sentire sicuro della sua posizione di predominio e di controllo. Riuscire a conservare il proprio punto di vista ha a che fare con la consapevolezza e la capacità di scelta, vuol dire avere un’identità; perderlo, non riuscire più a essere certe, essere indotte a pensare che solo l’altro sia il detentore della verità significa diventare deboli e incerte, muoversi in un territorio insicuro, perdere consistenza e indebolire la propria identità. Eppure questa perdita nel maltrattamento è la condizione per sopravvivere, è un accadimento interno di cui le donne non sono consapevoli perché avviene lentamente, a piccole dosi, mascherato, coperto dalla relazione affettiva.  In sostanza il maltrattante è sempre presente, è il suo pensiero quello con cui “bisogna fare i conti” anche quando non è presente, come se nel sistema cognitivo della donna fosse entrato il punto di vista del maltrattante e lo avesse alterato. Il «lui dice», «lui pensa» al posto di “io dico”, “io penso”, può diventare la traccia da seguire per aiutare la donna a riappropriarsi dei
suoi parametri. L’aver interiorizzato il maltrattante e il suo punto di vista sulla realtà genera nella donna l’impossibilità di entrare in contatto con i propri sentimenti e i propri desideri e quindi di riconoscerli, scambiando per propri i desideri e i sentimenti del partner.
Sapere che la violenza ha tanti aspetti, che può essere sottile e insidiosa, che può cogliere ognuno di noi di sorpresa e insediarsi poco alla volta nelle nostre relazioni di coppia, è uno dei requisiti più importanti per sostenere le donne e aiutarle a uscire dall’isolamento in cui vengono collocate.

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