mercoledì 4 gennaio 2012

NARCI_SISMA la follia di un terapeuta alle prime armi







Questo elaborato nasce dall’emozione che ho provato accostandomi all’argomento “narcisismo”. Oltre l’inevitabile riconoscere i tratti caratteriali che certo mi appartengono, e che di volta in volta vengono fuori in modo più o meno prepotente, il collegamento (e la conseguente vergogna che immediatamente si è incuneata tra me e quello che avevo appena scoperto di me) è stato fatto tra gratificazione/immagine narcisistica e pratica clinica. Perché, in pratica, mi sono senza apparenti dubbi, inerpicata sulla strada del mestiere di psicoterapeuta? Ricordo perfettamente quelli che nel mio corso di laurea in psicologia, affermavano di essersi iscritti con l’intento di “aiutare l’altro”; altrettanto bene ricordo la sensazione di sdegno, misto a disgusto che quell’affermazione, a mio parere totalmente ipocrita, suscitava a me, che invece asserivo di averlo fatto solo per comprendere meglio le mie difficoltà e i miei vissuti. Ma oggi, solo oggi, posso ammettere (almeno per iscritto, credo che la verbalizzazione di questo concetto mi comporti ancora un certo rossore) quanto abbia giocato la fantasia di essere di fronte al paziente come “colui che lo salverà”, avere il potere di farlo e il riconoscimento dello stesso. Qualche settimana fa ho incontrato una paziente che aveva terminato (secondo i suoi bisogni) la sua terapia diverso tempo fa: tra grandi sorrisi ed abbracci, lei si è profusa in ringraziamenti e frasi shock del tipo “lei mi ha cambiato la vita!”. Ero al supermercato quando è avvenuto l’incontro e, appena la signora si è allontanata, ho potuto fare un sommario controllo del mio stato post-gratificazione narcisistica: mi ero già resa conto di non essere stata in grado di rispondere in modo caldo al suo abbraccio, non perché non ci fosse un reale desiderio di contatto (o forse proprio per quello), ma perché ero totalmente calata nel ruolo. IO, eroe salvifico!. Terapeuta magico! Etc. etc.
Non è certo la prima volta che incorro in queste fantasie grandiose e fortunatamente, dopo il terrore iniziale e la vergogna scaturiti dai primi incontri con il mio narcisismo da terapeuta, oggi sono in grado di elaborare di volta in volta, in modo più o meno soddisfacente, quello che mi succede. Ancora lontana dal vivere questa mia condizione con totale serenità e ancora più lontana dal non viverla proprio, è comunque un primo passo!
È dunque un Narci-Sisma che mi scuote e mi destabilizza quello che, di tanto in tanto, mi trovo a vivere io, futuro terapeuta alle prime armi, nella relazione terapeutica.
Secondo Lowen lo scopo della terapia è la scoperta di sé e ciò implica tre fasi. La prima è costituita dalla consapevolezza di sé che passa per il sentire ogni parte del proprio corpo e i sentimenti che emergono quando  si sente veramente. Il secondo passo è l’espressione di sé, perché i sentimenti non espressi vengono repressi e così il contatto con se stessi si perde. Lowen parla, ad esempio, della rabbia omicida temuta da molte persone e quindi repressa come di una bomba inesplosa che si può far esplodere nel luogo sicuro costituito dalla terapia, con conseguente gestione razionale di essa, una volta espressa. Il terzo passo è invece una nuova padronanza di sé che non passa per la repressione timorosa di sentimenti sentiti come ingestibili e dolorosi, ma per il contatto con se stesso e l’espressione di sé nel proprio interesse. Questo è il vero dominio di sé. Non c’è paura né vergogna di essere quello che si è, ci si accetta e ci si sente liberi di essere,  per questo ci si sente in grado di gestire qualsiasi emozione e situazione. Ma questo paradiso è il risultato di un lungo lavoro che porta anche attraverso l’inferno del sentire tutto il dolore e la paura che in passato non ci si sentiva forti abbastanza per sentire e gestire. Ecco perché il terapeuta deve avere consapevolezza del proprio lato narcisistico, e, senza reprimerlo a causa della vergogna, elaborarlo, all’interno della relazione con il paziente , nell’ottica di un costruttivo controtransfert.
Questa dunque, non sarà una disamina dell’eziologia e del comportamento del “carattere narcisista”, ma solo una carrellata nella storia dei miei tratti narcisistici e di come essi si incuneano nei primi passi della mia pratica clinica.


Transfert e controtransfert (voce fuoricampo)
Il controtransfert va distinto dal transfert del terapeuta che è dato dal movimento inconscio e spontaneo del terapeuta verso il cliente. Per controtransfert attualmente si intende l'insieme delle emozioni (che non provengono necessariamente tutte dal passato) che il terapeuta prova nei confronti del paziente.
In ogni terapeuta sono presenti aspetti negativi (tra cui costellazioni narcisistiche) che influiscono inconsciamente sul campo terapeutico. Anche nel migliore dei casi questo è inevitabile ed è necessario accettarne la presenza anche se tale idea tocca (ancora una volta) la nostra parte narcisistica che non ama accettarla e che tende a scaricare i problemi solo sui pazienti. Non è realistico credere di poter eliminare del tutto questa parte negativa , ma, essendone consapevoli, si può comunque constatarne gli effetti ed eventualmente correggerli. Questo contributo negativo può modificarsi nel corso della terapia e molto dipende dalle circostanze e dalle dinamiche. C'é molta fluttuazione e naturalmente ci sono molti modi in cui la parte negativa del terapeuta può essere stimolata dalla parte negativa del paziente e viceversa.
                                   

La gratificazione è vita
Il narcisista è spettatore della realtà: purtroppo o per fortuna immediatamente dopo la mia laurea in psicologia sono stata letteralmente “buttata”, durante il mio tirocinio post-lauream, nella conduzione di colloqui clinici all’interno di una struttura pubblica. Ricordo molto bene la paura di sbagliare che mi accompagnava (e che in modo molto diverso mi accompagna tuttora) in quei miei primissimi periodi. Mi sentivo inadeguata e al tempo stesso avvertivo la necessità di promuovere un’immagine di me che potesse comunicare sicurezza e  competenza. Quasi “mi mascheravo” da terapeuta, vestendomi in un certo modo e tentando di controllare ogni mia emozione ed esternazione. Anche il tono della mia voce non era autentico, alla continua ricerca, com’ero, di essere non più una persona ma l’incarnazione di “un ruolo”. In quel momento del mio percorso, in effetti, non avevo una mia identità (o non credevo che il mio vero sé potesse essere adeguato alle esigenze e, di conseguenza, accettato) e quindi, in preda ai miei tratti e bisogni narcisisti, mi identificavo nel ruolo. Incredibilmente i miei colloqui di allora risultavano quasi tutti piuttosto gratificanti per me e per i pazienti, non rendendomi conto che stavo mettendo in atto una empasse mutualmente gratificante, nella quale io recitavo la mia grandiosità e i miei pazienti me la rispecchiavano puntualmente. Anche le mie supervisioni di quei tempi, che ora guardo con occhi per lo meno scettici, rinforzavano queste mie convinzioni, gratificandomi ulteriormente, senza invece portarmi sulla strada di un’elaborazione emotiva dalla quale, ovviamente, mi tenevo prudentemente alla larga. Ero davvero convinta (e posso permettermi di parlare solo di convinzioni perché, credo di essere una sorta di “portatrice sana di tratti narcisistici”) che più fossi riuscita a tenere sigillato il mio universo emotivo, meglio avrei “funzionato” nella relazione (o sarebbe meglio dire pseudo-relazione) con il paziente. In quello che si potrebbe definire “narcisismo etico”, portavo avanti una mission identificandomi con un ruolo e quindi con un ideale, senza consapevolezza alcuna della “discontinuità della coscienza” che mi caratterizzava perché totalmente identificata con il mio sé ideale.
Questi elementi, in effetti, non saltano fuori dal nulla nella mia storia; il mio tratto narcisistico affonda le sue radici nelle numerose aspettative (riguardanti il falso sé) alle quali sono stata sottoposta durante la mia infanzia, nel rapporto con mio padre e con una famiglia/clan con un investimento narcisistico piuttosto importante. Ovviamente il soddisfare quelle aspettative era propedeutico, almeno nel mio vissuto, alla possibilità di essere accettata.
Ed è a quelle stesse aspettative che, da adulta, rispondevo in quei miei primi colloqui: essere brava, ottenere riconoscimento, avere il “potere”… per raggiungere questi distorti obiettivi non empatizzavo con il paziente, piuttosto tentavo di  “sedurlo”.


Dolcetti in terapia: scenari narcisistici
Tento qui di individuare alcuni “scenari”, narcisisticamente caratterizzati, che il terapeuta può scoprirsi a sperimentare; alcuni li ho sperimentati io stessa, altri li ho fantasticati a partire dal mio percorso di formazione.
 Scenario di seduzione
E' una seduzione che si esplicita nel bisogno del terapeuta di creare, con alcuni pazienti, un'atmosfera di eccitazione maggiore di quanto non sia adeguato o necessario nella terapia. Quando questa è forzata potrebbe essere proprio a causa dei bisogni nascosti del terapeuta. In questo modo il terapeuta si sente potente e amato e sente di aver valore nel mondo.
 Scenario dell’ essere premiato
Quando vi è uno scopo conscio o inconscio di essere premiato dal paziente, per esempio per le brillanti intuizioni, per la bravura, per la dedizione, ecc.
 Scenario di attacco
Si manifesta quando il terapeuta ha un bisogno sadico nascosto (e sfortunatamente la terapia è un campo eccellente per realizzare questo scopo). Si può chiamare confronto, provocazione, ecc. E' facile attaccare i pazienti nella situazione terapeutica.


 Scenario di salvataggio
Il terapeuta ha bisogno di avere un'immagine di sé come di un grande salvatore, "un cavaliere sul cavallo bianco", ecc.
 Scenario del "riempi il mio vuoto"
Si usa la terapia per riempire il proprio vuoto comunicando indirettamente al paziente che "dovrebbe venire con più emozioni, con maggiore eccitazione". Ciò accade quando il terapeuta ha bisogno di questo per nutrirsi, come fosse un “vampiro” energetico.
 Scenario del guru.
E' il bisogno narcisistico del terapeuta di essere visto come un maestro.

Questi sono solo alcuni tipi di bisogni narcisistici del terapeuta in terapia. Naturalmente non è realistico pensare di potersi liberare di tutti i bisogni narcisistici. L'idea non è di diventare perfetti (per carità!), ma di arrivare a conoscere molto bene questi bisogni per poter scoprire da quali situazioni del passato provengono e in che misura sono presenti allo stato attuale e per poterli eliminare dalla terapia o almeno fare in modo che invadano il meno possibile il lavoro terapeutico non lasciandoli totalmente fuori dalla propria consapevolezza.

Un terapeuta a “tenuta stagna”?
Prima della seduta (infatti il controtransfert inizia prima della seduta), è necessario osservare se stessi per notare ciò che accade, ciò che si sta provando. Diverse volte ho sperimentato, ad esempio, sensazioni di agitazione o di fastidio, o, al contrario di piacere, all’idea di accogliere un paziente. Se all’inizio mi colpevolizzavo per questo, credendo di dover essere “assolutamente imparziale” e, mi viene da dire, impersonale o addirittura a-personale, oggi sento che le emozioni che sperimento all’idea di un particolare paziente siano molto utili ai fini della terapia stessa, nonché del mio percorso personale. Durante la seduta è necessario, poi, cercare di porre uguale attenzione ai vissuti e alle espressioni del paziente, e ai propri, a tutti i livelli della consapevolezza (sensazioni, pensieri, immagini, sentimenti, impulsi, ecc.). Pur senza agire i propri impulsi (a meno che non lo si ritenga terapeuticamente utile), sarebbe di grande importanza notarli e non bloccarli. Ritengo sia molto importante, infatti, quando entro di sé vi è un qualche tipo di reazione, permettere che questo accada. Come ho detto, all’inizio cercavo di evitare questa esperienza e non me la permettevo. Oggi invece, credo sia  fondamentale lasciar sviluppare tali reazioni senza né bloccarle né agirle, proprio nell’ottica di darsi la possibilità di contattare il proprio vero sé, evitando di essere, appunto, un “terapeuta a tenuta stagna”. Il passo successivo è di tipo più cognitivo. Si cerca di ordinare interiormente la reazione per capire in che misura questa provenga dal paziente o dal terapeuta. Anche se non si può sempre fare questo lavoro, poichè magari alle volte non si è in grado di comprendere con chiarezza ciò che sta accadendo, si deve comunque accettare l'esperienza e si possono formulare delle ipotesi.


Bugie, confessioni e conclusioni
Chi una volta ha proclamato la violenza con i propri metodi, è costretto a scegliere la menzogna come proprio principio. Un uomo semplice e coraggioso deve compiere solo un passo, non partecipare alla menzogna
(A. Solgenitsyn).

Ammettendo che le “bugie” sono una versione distorta della realtà esterna all’individuo, ma aderente a una realtà più intima e indicibile, diventa possibile utilizzarle per conoscere l’individuo che ne fa uso. Il contenuto di una distorsione può non è certo completamene casuale. Come nei sogni, il contenuto manifesto ha attinenza con il contenuto latente. Torna utile a questo scopo, dunque, cercare di decodificare la maschera che, come nel sogno, la parola ha dovuto indossare per ingannare la dogana della coscienza e poter uscire allo scoperto. Paradossalmente, la menzogna di sè potrebbe essere un tentativo di ricerca della realtà. In seduta, prima di procedere in questa operazione, il terapeuta deve quindi istituire in sé un regime di legalità.
Penso che in ciascuno, anche nel migliore degli psicoterapeuti, la violenza del falso sé potrebbe essere il racconto di una condizione interna di disagio, anche momentaneo. Attraverso la violenza che la bugia rappresenta, ciascuno tenta di raccontare ciò che vive dentro di sé in quel momento: un regime violento e tirannico, forse determinato dal proprio narcisismo onnipotente, che sequestra la spontaneità e la creatività, costringendo l’individuo, in quel momento, a essere distante dal piacere del contatto con la realtà. 
In seduta, questa condizione narcisistica, può opporsi alle capacità di accoglienza, ascolto e trasformazione di cui il terapeuta deve poter disporre. All’inizio il lavoro terapeutico si muove all’interno di una relazione che può avere caratteristiche super-egoiche e narcisistiche, che confluiscono nel transfert che il cliente produce sul terapeuta. Un piacere, per esempio, legato al sentirsi parte di una coppia speciale e potente nelle sue capacità intellettuali. Sarà uno dei compiti del controtransfert del terapeuta esplorare i vissuti connessi a questa condizione iniziale.

















BIBLIOGRAFIA
Lowen Alexander, “Il narcisismo: l’identità rinnegata”, Feltrinelli Editore, 1985.
Moselli Patrizia , “Il guaritore ferito: la vulnerabilità del terapeuta”,  Melusina Editrice, Roma, 1999.
S.I.A.B. , lezioni.       

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